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noi esuli

Dalla fine cruenta della convivenza in Istria, Fiume e Dalmazia al faticoso e sofferto percorso di riconciliazione. La storia del confine orientale raccontata da chi l’ha vissuta. Per ricordare

di DIEGO D'AMELIO

«I l dramma dell’esodo è il dramma della lacerazione sociale e familiare. Un nucleo viene estirpato, perché la sua terra non è più sua». Lo spiega in poche parole Adriana, esule da Zara, cosa fu il dopoguerra per gli italiani dell’Adriatico orientale, al di là del fiume di dibattiti politici e storiografici sulle vicende del confine orientale.

Quella dei giuliano-dalmati è una storia di dolore. Di vite strappate e ricostruite faticosamente altrove. Per i suoi involontari protagonisti, l’esodo è memoria dello sradicamento, paura della polizia jugoslava, ricordo del padre ucciso sommariamente, l’abbraccio al nonno che sceglie di restare per morire nella sua casa, la disperazione di «lasciare tutto», l’onta dell’accoglienza ricevuta nei campi profughi. Gli occhi si riempiono di lacrime anche dopo settant’anni. In occasione dei suoi 140 anni, Il Piccolo usa lo sguardo dei testimoni per ripercorrere il filo di una storia che ha contribuito a raccontare sulle sue pagine.

Con l’esodo sparisce un’intera società: più di 300 mila italiani lasciano la propria terra. I centri costieri dell’Istria si svuotano, le radici si troncano. Poi «il silenzio ci ha colpiti per sessant’anni»: cala l’oblio su una vicenda scomoda per tutti, tenuta viva dalle associazioni dei profughi e oggetto di troppe strumentalizzazioni, che stanno lasciando il posto alla pacificazione fra italiani, sloveni e croati dopo una faticosa opera di distensione. Ciascuno con la sua memoria, ma pronti a tendere la mano, perché «i confini non dovrebbero più esistere», dice in uno dei filmati chi sa quale sia il valore della convivenza e quale il volto mostruoso dei nazionalismi e dei totalitarismi.

IL CONFINE MOBILE

Così è stato definito il confine orientale, ridisegnato molte volte al mutare degli assetti geopolitici e della sovranità, dalla dominazione di Venezia all’amministrazione austriaca, passando per l’annessione all’Italia, la Seconda guerra mondiale e lo scontro totale che ne derivò. L’area oggi suddivisa fra Italia, Slovenia e Croazia ha vissuto tensioni nazionali, conflitti ideologici e guerre che ne hanno fatto un laboratorio della storia del Novecento.

le tappe di una lunga storia

Il crescendo di violenze politiche e nazionali che provocarono l’esodo giuliano-dalmata si spiega assumendo uno sguardo di lungo periodo fino ad arrivare al “secolo breve”, cominciato con la Grande guerra e proseguito con l’ascesa del fascismo, l’invasione della Jugoslavia, la presa del potere di Tito, il comunismo e un trattato di pace che segnò la sorte dell’Adriatico orientale. Fatti da consegnare alla storia, dopo il lavoro di pacificazione compiuto nella cornice dell’integrazione europea.

le tappe di una lunga storia

Il crescendo di violenze politiche e nazionali che provocarono l’esodo giuliano-dalmata si spiega assumendo uno sguardo di lungo periodo fino ad arrivare al “secolo breve”, cominciato con la Grande guerra e proseguito con l’ascesa del Fascismo, l’invasione della Jugoslavia, la presa del potere di Tito, il comunismo e un trattato di pace che segnò la sorte dell’Adriatico orientale. Fatti da consegnare alla storia, dopo il lavoro di pacificazione compiuto nella cornice dell’integrazione europea.

così si arrivò all’esodo

L’esodo inizia, «strisciante», dopo il 1943. Assume «proporzioni di massa» dopo il 1945 fino ad arrivare allo svuotamento di Pola nel 1947. A spiegarlo - e a ricordare come si è arrivati a una pagina così drammatica di storia - Giuseppe de Vergottini, presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati, professore emerito di Diritto costituzionale.

Così Il piccolo ha raccontato l’esodo

In principio furono “semplicemente” i profughi. Poi, all’inizio del 1946, divennero per la prima volta esuli. Ma com’è stato raccontato “in diretta” il loro dramma dalla stampa dell’epoca?

Il Piccolo di Trieste – il quotidiano che più si è occupato degli italiani che hanno dovuto lasciare nel dopoguerra l’Istria, Fiume e la Dalmazia – ha cercato la risposta, anzi le risposte, nei suoi archivi. Nella gallery un assaggio della ricerca condotta da Jacopo Bassi su centinaia e centinaia di titoli, articoli, fotonotizie pubblicati tra il 1945 e il 1956.

— 17.09.1947 Così di notte evacuarono Pola senza cerimonie né strette di mano
— 4.10.1947 Ai giuliani esuli
— 8.10.1947 Zara morta e viva
— 26.03.1948 Cartolina precetto
— 14.04.1948 Iniziato l'esodo degli optanti fiumani
— 5.05.1948 E' giunto da Zara un primo gruppo di optanti
— 17.07.1948 Il destino qualche volta ha la mano dura e crudele
— 6.11.1948 Un pezzo d'Istria sul Tevere: il villaggio giuliano all'E42
— 8.12.1948 A piazza di Spagna anche visi olivastri
— 21.04.1949 Gli esuli istriani optanti sono figli di nessuno
— 21.10.1949 La pianura di Fertilia [...]ende aratri e vita
— 20.11.1949 Un lembo dell'Istria in provincia di Sassari
— 25.11.1949 Dialetto di Pola tra i fichidindia
— 23.12.1949 Gino Damerini, Natale giuliano a Venezia
— 22.6.1950 Presto sorgerà a Milano la "Domus Julia Dalmatica"
— 8.8.1950 Voci di bimbe da Strigno
— 6.8.1951 Vi mandano tanti baci
— 19.9.1950 Gino Damerini, Guardano i santi del Carpaccio con la dolorosa nostalgia dell'esiliato
— 20.2.1951 N. Carelli, Istriani e Dalmati attivissimi, come a casa loro
— 11.4.1951 Questa è la cartolina...
— 16.4.1951 Manlio Gianbassi, L'Istria si è ritrovata a Gorizia
— 28.9.1951 Quanto si è fatto da noi per l'assistenza agli esuli
— 29.9.1951 La fraterna assistenza all'indomani dell'esodo
— 5.11.1951 Non ci persuaderemo mai che "realtà" voglia dire rinuncia
— 7.4.1952 Gli insegnanti italiani fuggono dalla Zona B

Attraverso gli occhi dei testimoni

Partire o restare. Ogni famiglia istriana si tormenta in questo interrogativo. La memoria è vivida nei bambini di allora, quanto il dolore che non se ne va. La paura dei militari del nuovo regime, un parente arrestato e mai più tornato, l’uccisione efferata di Norma Cossetto: la pressione ambientale cresce e la maggioranza degli italiani lascia la propria casa, partendo verso un futuro incerto. Le radici vengono tagliate: «A casa mia non ho più avuto il coraggio di rimettere piede»

IL LUNGO ESODO

L’abbandono dell’Adriatico orientale da parte degli italiani è uno stillicidio di partenze che dura quindici anni. I primi a fuggire sono gli abitanti di Zara, dopo i bombardamenti alleati del 1943-1944. Seguono istriani e fiumani, a cominciare dallo svuotamento di Pola nel febbraio 1947. Infine i residenti della Zona B: l’addio comincia nel 1953, si accentua dopo la firma del Memorandum di Londra che cede alla Jugoslavia l’ultimo lembo d’Istria, dura fino alla fine degli anni Cinquanta.

“Piangevamo tutti”

«Guardate questo bel mare, chissà quando lo rivedremo». Il ricordo di chi parte è memoria di un addio sofferto, di genitori incapaci di consolare i propri figli, di povertà vissuta dignitosamente anche in un campo profughi. I ricordi sono tutti simili e tutti diversi, accomunati dalla lacerazione di chi si era convinto che «non era possibile rimanere» e gettava per l’ultima volta lo sguardo alla propria casa e agli amici, prima di incamminarsi «verso l’ignoto».

IL CIMITERO DEGLI OGGETTI

Ancora oggi il Porto vecchio di Trieste conserva in uno dei suoi depositi la testimonianza visiva più forte di quello che l’esodo significò per i profughi. È una storia che anche molti triestini hanno scoperto solo grazie allo spettacolo teatrale “Magazzino 18” di Simone Cristicchi. Montagne di sedie accatastate, armadi, fotografie, quaderni, stoviglie e altri oggetti minuti: reduci silenziosi del viaggio verso l’Italia, rimasti abbandonati da chi non ha potuto reclamarli una volta arrivato in patria.

Chi aveva deciso di partire dovette tentare di trasportare in poco tempo più cose possibili, caricandole su carri e imbarcazioni diretti verso Trieste e poi chissà dove. Valeva per i più fortunati, perché chi scelse di andarsene di notte mise nello zaino solo i vestiti di ricambio e qualche oggetto caro. Le masserizie furono accatastate in Porto vecchio e quelle non reclamate giacciono ancora lì.

camminando nei depositi si trova di tutto

Gli oggetti furono prima sistemati nei padiglioni del Magazzino 22 e poi traslocati al Magazzino 18, dove rimasero per decenni. L’opera di conservazione dell’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata e lo spettacolo di Simone Cristicchi li hanno preservati e riportati alla luce: ora le masserizie sono diventate un’esposizione permanente nel Magazzino 26, trasformandosi da oggetto di memoria individuale in patrimonio collettivo.

Camminando nei depositi si trova di tutto: gli armadi con il cognome del proprietario scritto sul retro col gesso, le foto di famiglia, i quaderni dei bambini, gli attrezzi da lavoro, perfino una rete da pesca. Cose modeste, fossili di una quotidianità smarrita, proprietà di gente che proveniva da un’area poverissima e che a volte non riuscì nemmeno a recuperare ciò che aveva spedito e non poteva portare dentro un campo profughi.

Il magazzino della memoria

Il mestolo, le sedie da cucina, i materassi, il letto, una sedia a rotelle. E ancora le lettere, i ritratti, i quaderni di scuola, i giocattoli, gli arnesi da lavoro, una Divina Commedia avvolta nella bandiera tricolore: sono le masserizie degli esuli che – dopo molte traversie – trovano oggi spazio nel Magazzino 26 del Porto Vecchio di Trieste. Raccontano la quotidianità spezzata di migliaia di famiglie.

L’umiliazione del campo profughi

L’accoglienza degli esuli non fu semplice per un’Italia in ginocchio. Chi non riuscì ad aiutarsi da sé venne ospitato in un centro raccolta profughi anche per anni. La penisola è punteggiata da queste strutture, ricavate perfino dentro ex campi di concentramento. La vita all’interno era «avvilente e drammatica»: famiglie costrette in box senza privacy e servizi igienici, in luoghi così precari che a Padriciano una bambina morì congelata nel duro inverno del 1956.

«All’interno del box era sottozero, mia sorella in una notte prese talmente tanto freddo…abbiamo chiamato l’ambulanza ma non c’era niente da fare. Marinella era morta di freddo». Fiore, da Grisignana, racconta la testimonianza più drammatica sulla vita nel campo profughi di Padriciano, a Trieste: uno dei 109 creati dal 1947 per ospitare gli esuli giuliano-dalmati, che in maggioranza non erano in grado di provvedere alla propria sopravvivenza. Il governo ricava spazi dentro caserme, ospedali, conventi, fabbriche dismesse e perfino ex campi di concentramento, come la Risiera di Sabba o Fossoli.

È stato un periodo drammatico E CE L’HO ANCORa dentro

Buona parte degli esuli passa per Trieste e viene rapidamente sventagliata (come scrivevano le autorità), senza possibilità di esprimere la preferenza: ci si deve adattare alle disponibilità. La situazione che trovano è indecorosa: i box misurano pochi metri quadrati e sono divisi da lenzuola o pannelli di legno. La permanenza spesso si allunga per anni: nel 1963 ci sono ancora 8.500 persone nei 15 centri rimasti aperti. L’ultimo chiude nel 1975.

Le memorie raccontano di condizioni igieniche precarie, dell’umiliazione di dover lasciare le impronte digitali, della sensazione di essere gli unici a pagare la guerra fascista. Difficile integrarsi, perché gli esuli sono tenuti isolati: gli abitanti li vedono come assistiti e come pericolosi concorrenti nella ricerca di lavoro. «Siamo esuli, non ci vogliono. Questo fatto ci è rimasto appiccicato addosso».

IL RISCATTO DI UN POPOLO

Attrici, sportivi, intellettuali, cantanti, stilisti e cuochi. Partiti dalla condizione di profughi, ma capaci di diventare simbolo di riscatto per un popolo ormai disperso. La voce di Sergio Endrigo, la bellezza e la bravura di Laura Antonelli, i pugni di Nino Benvenuti, la velocità di Mario Andretti, gli scritti di Fulvio Tomizza ed Enzo Bettiza, le creazioni di Ottavio Missoni, l’arte culinaria di Lidia Bastianich: sono il talento che i giuliano-dalmati hanno saputo spargere nel mondo.

PASSA SU UNO DEI SEGUENTI VOLTI PER LEGGERE LA SUA STORIA

Mario Andretti
Mario Andretti nasce a Montona il 28 febbraio 1940. Deve lasciare la sua terra durante l’esodo. Finisce, con la famiglia, in un campo profughi in provincia di Lucca dove inizia a lavorare come apprendista meccanico. Si trasferisce negli Stati Uniti, inizia a gareggiare e, in pochi anni, diventa uno dei piloti più veloci e vincenti di sempre. Eclettico, plurivittorioso in tutte le categorie, dalla Formula uno alla Indycar, conquista uno storico titolo iridato nel 1978. Nel 2006 è nominato commendatore della Repubblica Italia e, l’anno dopo, sindaco del “Libero Comune di Montona in Esilio”.
Laura Antonelli
Laura Antonelli, all’anagrafe Laura Antonaz, nasce a Pola il 28 novembre 1941. La lunga strada dell’esodo istriano la porta prima a Napoli e poi a Roma dove si avvicina al cinema. Con Femi Benussi, Alida Valli e Sylva Koscina forma il gruppo delle “bellissime quattro” istriane e dalmate, che fanno sognare gli italiani. Raggiunge l’apice del successo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, spaziando dalla commedia erotica al dramma, dal cinema d’evasione al film d’autore. Protagonista indimenticabile del film Malizia, girato nel 1973 da Salvatore Samperi, scompare il 22 giugno 2015.
Lidia Bastianich
Lidia Matticchio Bastianich nasce a Pola il 21 febbraio 1947. A nove anni, con la famiglia, deve lasciare la sua terra in maniera avventurosa. Finisce in un campo profughi a Trieste. Nel 1958 si trasferisce di nuovo, stavolta negli Stati Uniti, dove si consuma la sua straordinaria avventura imprenditoriale. Apre il suo primo ristorante poco più che ventenne nel Queens. Ma è nel 1981 che approda a Manhattan con Felidia: qui cucina la jota, il gulasch, il frico, l’insalata di polpo. Propone le altre cucine regionali. E’ il successo. Lidia studia, pubblica libri di cucina, conduce programmi televisivi. Crea un impero della ristorazione. E diventa l’ambasciatrice della cucina italiana negli Stati Uniti. Saldamente legata alle origini, in una delle tante interviste in cui ricorda la sua infanzia, confessa: “Da piccola ho avuto fame”.
Nino Benvenuti
Giovanni “Nino” Benvenuti nasce a Isola d’Istria, terzo di cinque figli, il 26 aprile 1938. Spinto dalla passione del padre Fernando, comincia a frequentare il ring da giovanissimo. A soli 16 anni deve lasciare la casa natale, riparare a Trieste, affrontare pregiudizi e indifferenza. La boxe diventa strumento di riscatto. Sul ring, dove sembra danzare, brucia ogni tappa. Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei pesi medi tra il 1967 e il 1970, è tra gli atleti più amati di sempre dal pubblico italiano. Il suo primo match della trilogia contro Emile Griffith al Madison Square Garden, il 17 aprile 1967, è entrato nella leggenda. Dal 1996 il suo nome spicca nell’International Boxing Hall of Fame.
Enzo Bettiza
Enzo Bettiza nasce a Spalato il 7 giugno del 1927. Con la famiglia si trasferisce, profugo, prima a Gorizia e poi a Milano. “Io sono un esule nel più completo senso della parola: un esule organico più che anagrafico” confessa in un’intervista a Il Piccolo quando è ormai diventato un protagonista di primo piano del giornalismo italiano e uno scrittore affermato che, nei suoi romanzi e nei suoi saggi, racconta i fantasmi, le tensioni, le contraddizioni della Mitteleuropa finita nell’orbita dell'Unione Sovietica. Il suo cammino nel giornalismo inizia al settimanale Epoca, approda a La Stampa e quindi al Corriere della Sera. Nel 1974, assieme a Indro Montanelli, è protagonista della scissione che porta alla nascita del Giornale nuovo. A La Stampa ritorna all’inizio degli anni Novanta e, come editorialista, continua a scrivere fino all’ultimo. Autore di numerosi romanzi e saggi, vince il premio Campiello nel 1996 con “Esilio”. E’ senatore dal 1976 al 1979 e, in seguito, eurodeputato con i liberali prima, con i socialisti poi. Muore il 28 luglio del 2017.
Sergio Endrigo
Sergio Endrigo nasce a Pola il 15 giugno 1933. Trascorre l’infanzia in Istria ma nel 1947 è costretto ad abbandonare la sua casa assieme alla madre Claudia Smareglia. Si trasferisce come profugo prima a Brindisi e poi a Venezia. Più di vent’anni dopo racconterà la sua storia e quella della sua famiglia “scacciata da Pola” nella canzone “1947”: “Io allora non ho sofferto molto perché per me che avevo quattordici anni partire era un po’ un’avventura ma per mia madre fu un colpo veramente duro lasciare la casa, gli amici, l’ambiente, la strada dove camminavi tutti i giorni, così all’improvviso. Fu veramente una sofferenza per gli adulti. E così l’ho cantata pensando non tanto a me quanto a loro, ai grandi”. Cantautore colto e riflessivo, vince il Festival di Sanremo nel 1968 con Canzone per te, arriva secondo con Lontano dagli occhi e terzo con L’arca di Noè. Collabora, nella sua lunga carriera, con scrittori, poeti, musicisti: da Gianni Rodari a Pier Paolo Pasolini, da Vinicius de Moraes a Giuseppe Ungaretti, da Toquinho a Luis Bacalov, con cui ottiene un Oscar postumo per la colonna sonora de Il postino. Muore a Roma il 7 settembre 2005.
Ottavio Missoni
Ottavio Missoni nasce l’11 febbraio 1921 a Ragusa. Già da bambino si trasferisce a Zara dove alterna gli studi con lo sport. Corre i 400 metri prima e i 400 metri ostacoli poi. Nel 1937 viene convocato in Nazionale. Ma scoppia la guerra e Missoni parte per il fronte. A El Alamein viene catturato dagli inglesi: quattro anni in un campo di prigionia. Si ritrova a Trieste e torna a gareggiare. Nel 1948 è portabandiera degli azzurri ai Giochi Olimpici di Londra. Conosce Rosita Jelmini, si innamorano, si sposano. E creano uno dei più prestigiosi marchi di moda, esportando l’originalità e la qualità della maglieria italiana in tutti i mercati del mondo. La prima collezione è del 1958, la prima sfilata del 1966, da lì in poi è una cavalcata trionfale. Muore, a 92 anni, nel 2013. Per vent’anni sindaco onorario del “Libero Comune di Zara in Esilio”.
Abdon Pamich
Abdon Pamich, uno dei più longevi e vittoriosi marciatori italiani, nasce a Fiume il 3 ottobre 1933. Quattordicenne, nel 1947, deve andarsene dalla città natale con il fratello maggiore per cercare di raggiungere il padre Giovanni. Il viaggio dura due mesi, una rocambolesca marcia a tappe forzate, sino al campo profughi. Azzurro dal 1954 al 1973, partecipa a cinque edizioni dei Giochi olimpici, conquistando il bronzo a Roma nel 1960 e l’oro a Tokyo nel 1964, al termine di un appassionante duello nei 50 chilometri con l’inglese Vincent Nihill. Allenatore di marcia e responsabile atletico del Centro federale di tennis di Latina, due lauree in psicologia e sociologia nel campo sportivo, Pamich si batte da sempre per la conservazione della memoria storica della comunità giuliano-dalmata.
Agostino Straulino
Agostino Straulino, il “figlio del mare”, il “padrone del vento” diventato una leggenda vivente, nasce a Lussinpiccolo il 10 ottobre 1914. Da bambino padre e zio gli costruiscono una piccola barca, Sogliola, su cui “Tino” inizia a veleggiare. Dopo il diploma vagabonda a lungo sulla Lanzarda, una passera di 8 metri, per tutta la Dalmazia, in compagnia del suo cane Mark. Entra all’Accademia di Livorno, regata per l’Accademia stessa, colleziona vittorie, si qualifica nella rosa di atleti di Berlino 1936. Scoppia la guerra. Si trova sull’incrociatore Garibaldi e ci resta fino al 1942, quando entra nei gruppi Gamma degli incursori subacquei e per il suo valore riceve due medaglie. Dopo il 1943 abbandona la Decima Mas e tenta di far ritorno a casa ma viene imprigionato dai partigiani jugoslavi. Prova a scappare varie volte, ce la fa ma viene preso dai tedeschi. Finisce ai lavori forzati. Alla fine riesce a fuggire in barca e raggiungere Trieste. Rientrato in Marina, terminata la guerra, viene destinato alle operazioni di sminamento dei porti nazionali. Durante una di queste azioni, nel 1947, viene investito da un getto di iprite, perde la vista, poi lentamente la recupera, ma ne risentirà per tutta la vita. È allora che comincia ad allenarsi di notte. Dopo la delusione dei giochi olimpici di Londra, inizia un’incredibile progressione di vittorie e titoli fino al 1959. In un solo anno, il 1952, conquista l’oro olimpico, i titoli di campione del mondo, campione d' Europa, campione italiano. Nel 1965 è al comando della nave scuola Amerigo Vespucci. L’uscita dal Canale di Taranto a vele spiegate e la risalita del Tamigi fino a Londra sono due imprese entrate nel mito. L’11 ottobre 1972 lascia il servizio attivo con il grado di ammiraglio di divisione. Continua a partecipare e vincere a molte regate over 60, l’ultima nel 2002, a 88 anni. Nel 2002 gli viene conferito l’ordine di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana. Muore il 14 dicembre 2004. Viene sepolto nella tomba di famiglia di Lussinpiccolo: il ritorno a casa.
Giorgio Luxardo
Giorgio Luxardo nasce a Zara l’1 settembre 1897 da una famiglia di imprenditori: Girolamo, il capostipite, ha avuto la folgorante intuizione di produrre industrialmente il “rosolio maraschino”, ottenuto distillando le ciliegie zaratine. Giorgio entra in azienda a 25 anni, a fianco dei fratelli Nicolò, Demetrio e Pietro, e contribuisce alla sua crescita. Ma la seconda guerra mondiale infligge un colpo mortale all’attività della Luxardo: prima la carenza di materie prime, un grosso incendio, l’occupazione dei partigiani di Tito, poi la morte dei fratelli, la confisca dei beni, la distruzione dello stabilimento. Giorgio deve abbandonare le terre dalmate ma compie il miracolo: trasferisce l’attività sulle colline di Torreglia, in provincia di Padova, dove riesce a far crescere i ciliegi zaratini e a riaprire la fabbrica, nel 1947, diversificando la produzione. Muore il 1 luglio 1963.
Fulvio Tomizza
Fulvio Tomizza nasce a Materada, in Istria, il 26 gennaio 1935. L’infanzia non è facile, i conflitti interetnici sono acuti, dopo la fine della guerra il padre viene incarcerato due volte e i suoi beni confiscati. La famiglia si trasferisce a Trieste. Dopo la morte del padre, che riesce a riportare a Materada, lo scrittore va a studiare a Belgrado. Nel 1955, dopo la stipula del Memorandum di Londra, torna a Trieste dove lavora come giornalista. Il suo esordio letterario è nel 1957 con tre racconti che gli valgono il premio Cinque Bettole di Bordighera. Nel 1966 inizia a pubblicare la sua Trilogia istriana che comprende Materada, La ragazza di Petrovia, Il bosco di acacie. “Scrittore di frontiera”, autore di romanzi come La finzione di Maria, Gli sposi di via Rossetti e Franziska, autore di testi teatrali, riceve numerosi riconoscimenti per le sue opere tra cui il premio Strega per La miglior vita. Muore a Trieste il 21 maggio 1999. Viene sepolto – come aveva chiesto nel suo testamento – nella natia Materada.

I “campioni” dell’esodo

Partono da Istria e Dalmazia, ma si riscattano con la fatica e i successi dello sport. Diventano campioni: Benvenuti nel pugilato, Andretti nell’automobilismo, Straulino nella vela, Loik nel calcio, Pamich e Missoni nell’atletica. Andretti parla con accento americano, ma Montona gli è rimasta nel cuore. Benvenuti lascia Isola nel 1954 e ricorda la «guardia della polizia politica che disse a mia mamma che dovevamo andarcene l’indomani: la spinta del riscatto mi portò ai successi che ho avuto».

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Finalmente il futuro

Una giovane studentessa spiega che «avere memoria non è solo ricordare come si sono susseguiti i fatti, ma restituire dignità a coloro che hanno vissuto sulla loro pelle questo terribile evento». Memoria e ricostruzione storica possono oggi convivere serenamente, tanto più dopo la pagina nuova che i presidenti di Italia e Slovenia Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno aperto, tenendosi per mano sui luoghi simbolo delle violenze perpetrate a Trieste da nazifascisti e comunisti.

MEMORIA E RICOSTRUZIONE STORICA POSSONO OGGI convivere serenamente

Per arrivare fin qui si è dovuto anzitutto aprire il dialogo in Italia: un percorso avviato da Fini e Violante nel 1998, approdato sei anni più tardi all’istituzione del Giorno del Ricordo, nato affinché in tutta Italia si potesse finalmente conoscere la storia travagliata del confine orientale. Ripercorrerne i fili per via digitale è fondamentale per aprirsi ai giovani che, forse per primi, si affacciano adesso senza il peso delle strumentalizzazioni su un racconto che può essere finalmente consegnato agli storici, ma che non deve smarrire il vissuto della “gente qualunque”, che della storia è stata quasi sempre spettatrice o purtroppo vittima.

Quelle del dopoguerra non furono solo lacerazioni. Dagli anni Sessanta la frontiera fra Italia e Slovenia continuava a separare due mondi, ma divenne la più aperta fra quelle poste sulla Cortina di ferro. E se alcuni esuli non riuscivano nemmeno a pensare di tornare in visita alla propria terra, altri riallacciarono le relazioni con l’Istria, luogo a tutt’oggi splendidamente misto per linguaggi e identità. Il crollo del comunismo e l’integrazione europea stanno facendo il resto, dopo un lungo percorso di comprensione reciproca che tocca ai giovani rendere irreversibile.