Disturbi alimentari: le cure che mancanodi Carlotta Dotto

Quasi un litro di sapone di Marsiglia mandato giù tutto d’un fiato. È il gesto lucido e disperato che Irene si è inventata per scampare a quella struttura che avrebbe dovuto curarla e la precipitava, invece, in un incubo ben peggiore. Aveva quattordici anni quando fu ricoverata in una clinica psichiatrica di Roma, miracolosamente sopravvissuta ad un tuffo dal quarto piano. La sua malattia? Guardarsi allo specchio e vedersi troppo grassa, pur essendo sottopeso. Il timore parossistico di perdere il controllo sul proprio corpo. Da qui Irene si è ritrovata in un girone infernale. Costretta a convivere con giovani psicotici, privi del più elementare autocontrollo, nel disordine assoluto, tra l’assunzione di sostanze e il sesso promiscuo.

“Dentro la struttura ho scoperto che il mio problema non è la non voglia di mettermi alla prova, ma un disturbo alimentare che mi mangiava dentro da chissà quanto tempo.” Caterina
A quattordici anni, concentrati nello stesso spazio, tutti i possibili fattori di rischio. Qui, dove avrebbero dovuto curare quella sua percezione alterata allo specchio, grave al punto da spingerla a togliersi la vita, sarebbe stata imbottita di farmaci e progressivamente contaminata dagli aspetti psichiatrici dei suoi coinquilini.

Perché non è stata indirizzata meglio? Irene non smette di chiederselo. Nessuno le risponde. Nessuno può risponderle. Perché una situazione come la sua in Italia spesso non trova un luogo appropriato di cura e viene demandata nella maggioranza dei casi a reparti di psichiatria, neuropsichiatria infantile, medicina interna, privi di figure professionali specifiche e impreparati a fornire le cure necessarie.

Anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata (Binge-Eating Disorder) colpiscono più di tre milioni e mezzo di persone, con 8.500 nuovi casi all’anno, ma sono patologie alle quali la sanità pubblica non riesce a trovare una risposta adeguata. A metà strada tra psichiatria e medicina internistica, tra corpo e anima, questi disturbi interessano una pletora di specialisti, ma nessuno se li può aggiudicare. Così per decenni Hollywood ha sfruttato la morbosa fascinazione dei disturbi alimentari subìta dai giovani in un drammatico film dopo l’altro. Ma nonostante i numeri e le grandi attenzioni dei media al problema, la malattia manca ancora di trattamenti appropriati, restando ancora soggetta a miti e false percezioni.

“I malati sono in costante aumento, ma si tratta di una malattia che vive ancora nel sommerso,” racconta Stefano Tavilla, presidente dell’Associazione Mi Nutro Di Vita e papà di Giulia, morta a 17 anni per bulimia. “In pochi si rendono conto dell’impatto reale di questa malattia. Di quante persone ne muoiano ogni giorno.” Nel 2016 le vittime furono 3.360, secondo i dati delle dimissioni ospedaliere. Ma sono cifre in difetto. “I decessi dovuti a disturbi alimentari si presentano spesso sotto altra specie, per lo più arresti cardiaci o suicidi, come è successo a mia figlia. Non è più ammissibile che altri figli muoiano quando potevano essere salvati.”

Nel caos di servizi incompleti e inadeguati, i pazienti con tali disturbi che si rivolgono ad una struttura sanitaria rischiano di ritrovarsi prima impantanati e poi perduti in un labirintico sistema di rimandi e trasferimenti. L’accesso a servizi di qualità rimane una lotteria del codice postale, ed è il caso, quasi sempre, a decidere sulla qualità delle cure.

“Ci sono grandi criticità nel sistema pubblico di trattamento e nell’accesso al percorso di cura,” spiega il professor Marcello Marcelli, che dal 1992 al 2015 è stato Primario della Struttura Complessa di Dietologia e Nutrizione Clinica dell’ospedale S. Giovanni-Addolorata di Roma. “In alcune aree i servizi sono eccellenti, ma in altre c’è poco o nulla, e non esiste un’offerta standardizzata in tutto il paese. Manca un numero adeguato di posti letto per anoressia in fase acuta e le pazienti sono spesso costrette a spostarsi di regione per trovare una soluzione”.

Irene, a modo suo, ha trovato la ‘soluzione’. Dopo aver ingerito il sapone, è stata ricoverata all’ospedale Gemelli di Roma e poi, finalmente, in una struttura per minori dedicata ai disturbi alimentari. Ma dal caso estremo fino alla quotidiana visita ambulatoriale, vi è tutta una gamma di situazioni per le quali non esiste risposta.

“Ricordo alcuni episodi... All’università i colleghi, se ti vedevano passare alla macchinetta, ti dicevano, ‘Magnatela ‘na cosa’. Non c’è assolutamente un supporto.” Venera

La mappa delle strutture dedicate al trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare

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La mappa delle strutture dedicate al trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare

Schema dei trattamenti:
L'ambulatorio: Costituisce il punto centrale della rete di intervento, che dovrebbe offrire il 70% delle risposte di cura appropriate. Questo intervento dovrebbe garantire un approccio multidisciplinare integrato che tenga insieme sia gli aspetti psichiatrici-psicologici sia quelli medico-nutrizionali.
Il centro diurno e/o Day Hospital (DH): il centro diurno garantisce un livello più intensivo di assistenza in ambiente ospedaliero o extra-ospedaliero, con un attento monitoraggio delle condizioni cliniche e associato alla riabilitazione nutrizionale (pasti assistiti). In alcuni servizi, in particolar modo in quelli ospedalieri, vi può essere un livello di DH previsto per il check-up clinico periodico dei pazienti.
Il ricovero ospedaliero: in fase acuta (salvavita) garantisce la presa in carico nei momenti più critici della terapia, con lo scopo di stabilizzare le condizioni medico-psichiatriche, gestire le complicanze acute associate al disturbo e preparare il paziente al passaggio ad un altro livello di trattamento.
I livelli residenziali e semiresidenziali: necessariamente extraospedalieri, garantiscono che la riabilitazione (durata media di 3-4 mesi) possa avvenire in un ambiente adeguato e "osmotico", dove i giovani adolescenti, a volte bambini, possano essere curati senza subire gli inevitabili effetti negativi di una lunga ospedalizzazione.
Fonte: Consult@noi-Disturbi del Comportamento Alimentare
Schema dei trattamenti:
L'ambulatorio: Costituisce il punto centrale della rete di intervento, che dovrebbe offrire il 70% delle risposte di cura appropriate. Questo intervento dovrebbe garantire un approccio multidisciplinare integrato che tenga insieme sia gli aspetti psichiatrici-psicologici sia quelli medico-nutrizionali.
Il centro diurno e/o Day Hospital (DH): il centro diurno garantisce un livello più intensivo di assistenza in ambiente ospedaliero o extra-ospedaliero, con un attento monitoraggio delle condizioni cliniche e associato alla riabilitazione nutrizionale (pasti assistiti). In alcuni servizi, in particolar modo in quelli ospedalieri, vi può essere un livello di DH previsto per il check-up clinico periodico dei pazienti.
Il ricovero ospedaliero: in fase acuta (salvavita) garantisce la presa in carico nei momenti più critici della terapia, con lo scopo di stabilizzare le condizioni medico-psichiatriche, gestire le complicanze acute associate al disturbo e preparare il paziente al passaggio ad un altro livello di trattamento.
I livelli residenziali e semiresidenziali: necessariamente extraospedalieri, garantiscono che la riabilitazione (durata media di 3-4 mesi) possa avvenire in un ambiente adeguato e "osmotico", dove i giovani adolescenti, a volte bambini, possano essere curati senza subire gli inevitabili effetti negativi di una lunga ospedalizzazione.
Fonte: Consult@noi-Disturbi del Comportamento Alimentare

Nel 2016, il ministero della Salute, in collaborazione con la ASL Umbria 1, ha pubblicato una mappa dei servizi e delle associazioni specificamente dedicati al trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare, con la finalità di mostrare una panoramica, completa e aggiornata, dello stato reale di tutte le strutture pubbliche e convenzionate presenti sul suolo nazionale. E delle loro carenze.

“La mappa nasce da un’attività di controllo e di monitoraggio delle strutture su tutto il territorio nazionale, che con grande fatica teniamo regolarmente aggiornata”, spiega Laura Dalla Ragione, Direttore Rete DCA della ASL in Umbria 1.

Decisamente critica risulta la distribuzione dei livelli di assistenza che ogni regione dovrebbe offrire, dalle strutture intensive residenziali ai posti letto riservati per il ricovero ospedaliero salvavita. Tali livelli non sono tra loro sostituibili, ma rappresentano ciascuno la risposta idonea a un particolare stato della malattia.

“Quello che emerge è innanzitutto una forte discrepanza territoriale nei livelli di trattamento offerti, con una criticità più marcata nel Sud Italia”, commenta Laura Dalla Ragione. “In alcune regioni, come Sardegna, Calabria, Puglia, Campania, la situazione è disastrosa. Ma anche al centro, in realtà importanti come il Lazio, l’Abruzzo o le Marche, le strutture sono assolutamente insufficienti rispetto alla domanda di cura”.

Caterina, 17 anni da Grosseto, ha trovato una residenza per curare i suoi problemi di alimentazione incontrollata a Villa Miralago, in provincia di Varese, al confine tra l’Italia e la Svizzera.
“Sono dovuta andare lontano dalla mia città e dalla mia regione. Sono dovuta andare in Lombardia. Perché qui non è possibile stare in una residenza per svariato tempo.”

“I primi mesi sono stati i più difficili. Mi sono ritrovata completamente da sola, in un contesto estraneo al mio stile di vita e alla mia famiglia.” Caterina

La mappa delle strutture regione per regione

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La mappa delle strutture regione per regione

Il Molise non ha nemmeno un servizio di ambulatorio dedicato a queste patologie, mentre in regioni quali Puglia e Calabria ne sono presenti soltanto due. Qui il disagio aumenta in modo esponenziale.
Nel Lazio, nonostante l’ampiezza dell’utenza, le strutture che offrono letti per ricovero salva vita risultano essere tre. Di queste, però, nessuna è un centro di specializzato e dedicato al trattamento di dca. “Nel Lazio siamo veramente quattro gatti,” si sfoga il prof. Marcello Marcelli. “Di strutture pubbliche per il ricovero di una paziente grave non c’è praticamente nulla. Non sappiamo dove sistemarle.”
Come racconta la mamma di Giulia, che per anni ha sofferto di anoressia nervosa: “Mia figlia aveva 16 anni e mezzo quando, da Roma, l’abbiamo dovuta ricoverare a Todi. Potete immaginare il disagio per noi di dover raggiungere una struttura così lontana. Ho dovuto lasciare il lavoro.” L’Umbria, infatti, insieme al Friuli Venezia Giulia e al Veneto, risulta essere una delle poche regioni virtuose.
“Bisogna prendere atto che questa è una patologia grave. Su questo purtroppo non c’è nulla da fare. Ma se le cure fossero più adeguate, sarebbe un po’ più facile per le famiglie e per i ragazzi,” conclude la mamma.
Il Molise non ha nemmeno un servizio di ambulatorio dedicato a queste patologie, mentre in regioni quali Puglia e Calabria ne sono presenti soltanto due. Qui il disagio aumenta in modo esponenziale.
Nel Lazio, nonostante l’ampiezza dell’utenza, le strutture che offrono letti per ricovero salva vita risultano essere tre. Di queste, però, nessuna è un centro di specializzato e dedicato al trattamento di dca. “Nel Lazio siamo veramente quattro gatti,” si sfoga il prof. Marcello Marcelli. “Di strutture pubbliche per il ricovero di una paziente grave non c’è praticamente nulla. Non sappiamo dove sistemarle.”
Come racconta la mamma di Giulia, che per anni ha sofferto di anoressia nervosa: “Mia figlia aveva 16 anni e mezzo quando, da Roma, l’abbiamo dovuta ricoverare a Todi. Potete immaginare il disagio per noi di dover raggiungere una struttura così lontana. Ho dovuto lasciare il lavoro.” L’Umbria, infatti, insieme al Friuli Venezia Giulia e al Veneto, risulta essere una delle poche regioni virtuose.
“Bisogna prendere atto che questa è una patologia grave. Su questo purtroppo non c’è nulla da fare. Ma se le cure fossero più adeguate, sarebbe un po’ più facile per le famiglie e per i ragazzi,” conclude la mamma.

“L’assistenza pubblica non è in grado di dare una mano alle famiglie per quanto riguarda i problemi che hanno i ragazzi affetti dai disturbi del comportamento alimentare.”
Mamma di Caterina

A complicare il tutto va sottolineato che la gran parte dei pazienti affetti da queste patologie tende a negare fino all’estremo il proprio disturbo, rendendo ancora più necessaria la presenza di terapeuti esperti che sappiano intercettare in tempo questi disagi. “Il territorio ha un grande compito culturale e preventivo, oltre che di cura. I terapeuti si devono mettere in connessione con scuole e palestre, vero terreno di cultura della patologia, e sostenere ed orientare i genitori smarriti”, afferma la dottoressa Elisabetta Spinelli, ex responsabile del centro interdipartimentale DCA della Roma 3.

“A volte quando chiediamo alle pazienti quand’è che hai iniziato a comportarti così. Loro dicono un momento preciso, un commento, un’immagine o un’esperienza, però dietro a questo c’è già un vissuto che è iniziato più o meno precocemente.” Pediatra

In mancanza di una rete territoriale, il paziente dimesso da una struttura residenziale rischia di ricadere con maggiore facilità, in mancanza un’equipe in grado di accoglierlo nel momento più delicato. “L’illusione di molti è che il ricovero sia la soluzione e che in pochi mesi si riesca ad uscire da una terribile e pervicace dipendenza”, conclude la dottoressa Spinelli. Ma come dice Francesca, una ragazza di 22 anni, malata dai 12: “Dalla droga si può stare alla larga, ma del cibo non si può fare a meno, ce l’hai sempre davanti.” Per questo la stragrande maggioranza delle ragazze che soffrono di anoressia spesso virano, presto o tardi, alla bulimia, una forma altrettanto devastante, in cui il rischio dei danni biologici, come la rottura dell’esofago, le gravi alterazioni dei denti e disturbi della fertilità, sono più subdoli e meno visibili.

Un’altra enorme debolezza che emerge dall’analisi dei servizi offerti è che solo quattro strutture residenziali accolgono pazienti minori di 14 anni su tutto il territorio italiano.

“Mio figlio è sempre stato molto affamato, un bambino molto goloso. È nato molto grosso, era il più grande del nido. Durante l’allattamento sentivo che il latte non bastava mai.”
Mamma di Antonio, un bambino che ha sofferto di Binge-Eating Disorder

Questo punto rappresenta una criticità importante se pensiamo che negli ultimi anni l’età di esordio dei disturbi legati al comportamento alimentare si è abbassata notevolmente, ponendosi mediamente attorno ai 12-13 anni, con esordi anche in bambini di 8-9 anni.

“Questo è un gravissimo problema”, torna a spiegare la dottoressa Dalla Ragione. “Gli ospedali pediatrici italiani, tra quali il Bambin Gesù di Roma, il Meyer di Firenze e l’Istituto Gaslini di Genova, hanno pochissimi posti letto dedicati a queste patologie e possono fare solo la parte del ricovero salvo-vita”.

“Serve un percorso dedicato ai minori. Il che significa più personale, più spazi, più attività”. Inoltre sotto i 14 anni, il trattamento è molto più specializzato: “Sono pazienti più complicati di quelli adulti. A 11 anni c’è molta meno consapevolezza da parte del bambino. Non mangia, ma non ti dice il perché, ed è molto più difficile entrare in contatto”.

“Non volevo che mio figlio andasse in una struttura ospedaliera,” racconta Alessandra, mamma di un ragazzo che a 14 anni si è ammalato di anoressia. I maschi rappresentano ormai il 10% dei casi. Il ché disdice radicalmente il preconcetto che l’anoressia sia un disturbo esclusivamente femminile. Preconcetti e stigma che aggravano ancora di più le condizioni di questi piccoli pazienti e rendono più difficile trovare le risposte giuste.

Alessandra, infatti, è entrata in un tunnel senza uscita: “Abbiamo provato a chiamare il numero verde presente sul sito del Ministero e siamo stati messi in lista d’attesa per mesi. Ma ad un certo punto la situazione è degenerata. Ci hanno mandato all’ospedale Bambino Gesù di Roma per ricovero d’urgenza. Qui si è ritrovato in una stanza piccolissima, dove dormivano in cinque con le patologie più diverse, tra cui un bambino di tre mesi in fin di vita. Non potevano uscire mai dalla stanza, né venivano organizzate attività di alcun tipo, eccetto per le due ore a settimana in cui dei volontari si incaricavano di portarli fuori.”

“Era pesante, il tempo non passava mai. Dal punto di vista fisico è stato aiutato, ma la sua era una malattia mentale e si è ritrovato all’interno di un ospedale: un contesto che salva la vita, ma dove non si lavora sulla mente.”

“Non c’è consapevolezza e attenzione al problema. I medici non mi dicevano cosa avesse. Pensavo avesse il diabete, poi il cancro. Dovrebbero mandarti subito dallo psichiatra specialista. Così fai del male a questi ragazzi e ne va della loro vita. Ma si può guarire, con la cura giusta.”

Il ragazzo è stato successivamente seguito in ambulatorio e sta bene ormai da più di un anno. “La cura ambulatoriale dovrebbe poter essere maggiormente rappresentata,” dice il dottor Armando Cotugno, psichiatra, Direttore dell’Unità operativa sui Disturbi Alimentari ASL Roma 1 presso il Santa Maria della Pietà. “Il 70% dei pazienti, anche in condizioni gravi, può essere curato in ambulatorio, dove l’organizzazione dovrebbe seguire le linee guida nazionali e internazionali.” Ma, nonostante siano il cuore pulsante dei trattamenti pubblici, le cure che mancano sono anche quelle ambulatoriali.

Cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare

Il glossario delle tre principali patologie seguite da tre nuovi disturbi sempre più diffusi

Leggi le definizioni

Le persone che sono affette da anoressia nervosa hanno il timore di aumentare di peso, e adottano comportamenti persistenti che interferiscono con l’aumento di peso facendo diete estreme, procurandosi il vomito o attraverso un’attività fisica molto intensa. La paura di “diventare grassi” non diminuisce con il decremento ponderale, in genere aumenta parallelamente alla perdita di peso
La principale caratteristica che distingue la bulimia dall’anoressia è la presenza di ricorrenti abbuffate, alternate da comportamenti di compenso volti a prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso-uso improprio di lassativi, diuretici o altri farmaci; digiuno o esercizio fisico eccessivo
Il Binge-Eating Disorder o il disturbo da alimentazione incontrollata è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate compulsive, in un periodo di tempo circoscritto e senso di mancanza di controllo sull’atto di mangiare durante l’episodio (per esempio sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa o quanto si sta mangiando)
Sono disturbi dell’alimentazione caratterizzati dall’ingestione persistente di sostanze non nutritive, non alimentari per un periodo di almeno 1 mese. Le sostanze tipicamente ingerite variano in base all’età e alla disponibilità e possono includere carta (xilofagia), sapone, capelli, terra (geofagia), ghiaccio (pagofagia)
Disturbo dell’alimentazione caratterizzato dalla continua e ossessiva preoccupazione per quanto riguarda la propria massa muscolare, eminentemente maschile; abuso di integratori, anabolizzanti e diete iperproteiche; esercizio fisico compulsivo.
Disturbo dell’alimentazione caratterizzato da ossessione per il cibo “sano” e focalizzazione, non sulla quantità, ma sulla “qualità“. Vi è evitamento ossessivo di cibi non controllati e delle situazioni sociali che espongono al non controllo del cibo nonché convinzione fideistica delle proprie scelte

“Tra noi ragazze girava una dieta su internet chiamata ‘Bocconi amari’, pubblicata da una ragazza a cui avevano dato una cura da 2.700 calorie al giorno. Negli ospedali, invece, ti imbottiscono subito di integratori, mentre in alcune residenze ti mettono un braccialetto e ogni mattina devi fare la pesata davanti a tutti,” racconta Venera, una giovane donna che ha sofferto di anoressia. “Così non ti aiutano a riprendere un rapporto con il cibo. Bisognerebbe farlo lentamente e consapevolmente: una ragazza che già ha un problema si spaventa e le passa completamente la voglia di curarsi.”

“Perché una struttura possa considerarsi adeguata è necessaria una rete di intervento concepita in termini interdisciplinari ed integrati, completa in tutti i vari livelli di assistenza e dotata di figure professionali preparate,” spiega il dottor Cotugno. La multidisciplinarietà dovrebbe essere garantita ovunque, ovvero la cura della parte biologica e della parte psicologica all’interno dello stesso luogo.

“Trovavo nascosti negli armadi i resti di cibo che lui consumava in solitaria. Usava il cibo come droga. Era diventata una cosa incontrollata. Lui seguiva una dieta, ma poi mangiava di nascosto.” Mamma di Antonio

I disturbi alimentari sono patologie di confine. Sono disturbi psichiatrici, ma le cure di cui necessitano non sono solo psichiatriche. Spesso da patologia psichiatrica diventa una patologia organica per malnutrizione, che necessita di più figure professionali trasversali, come uno psicologo, un medico, un nutrizionista.

Com’è successo nella ASL di Roma 3 dove, da quando la psichiatra di ruolo è andata in pensione, il centro diurno è stato chiuso, destabilizzando il percorso di cura di tantissimi pazienti. Tiziana, la mamma di A., racconta: “Sono una mamma che da quasi 4 anni convive (o per meglio dire sopravvive) con il disagio psichico e fisico di mia figlia A.. Tutto è iniziato il 23 novembre 2014 quando A. mi ha mostrato, tra le lacrime, alzando la manica della sua felpa, i tagli che si procurava per ‘autopunirsi’ ogni qual volta non riusciva a non mangiare come la sua mente le ordinava.”

“Quei tagli inferti con le forbici o con il coltello, sono stati il primo grido di aiuto che mia figlia lanciava e sono stati la palese dichiarazione della sofferenza immensa che lei prova.”

“Il centro DCA della Roma 3 ci ha accolto con infinita attenzione e competenza, ha fatto sì che mia figlia non fosse “risucchiata” dalla sua malattia. E non solo. Insieme a mio marito, abbiamo trovato nel “gruppo terapeutico genitori” un denominatore comune: il disagio, la sofferenza fisica e psichica dei nostri cari. Per tanto tempo ci hanno guidato, seguito, accompagnato e soprattutto non ci hanno mai abbandonato, non ci hanno mai fatto sentire soli.”

Con la chiusura del centro sono cominciati i problemi. A. è passata da una struttura all’altra del territorio romano, sballottata tra rifiuti, rimandi e liste d’attesa, senza riuscire a trovare nella sua ASL di appartenenza uno psichiatra con esperienza.

“Quando vedo lo spot televisivo patrocinato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che declama "Non arrenderti, rivolgerti agli specialisti" non so se sorridere o piangere. Mi chiedo e vi chiedo semplicemente: quali specialisti?”