“L’assistenza pubblica non è in grado di dare una mano alle famiglie per quanto riguarda i problemi che hanno i ragazzi affetti dai disturbi del comportamento alimentare.”
Mamma di Caterina
A complicare il tutto va sottolineato che la gran parte dei pazienti affetti da queste patologie tende a negare fino all’estremo il proprio disturbo, rendendo ancora più necessaria la presenza di terapeuti esperti che sappiano intercettare in tempo questi disagi. “Il territorio ha un grande compito culturale e preventivo, oltre che di cura. I terapeuti si devono mettere in connessione con scuole e palestre, vero terreno di cultura della patologia, e sostenere ed orientare i genitori smarriti”, afferma la dottoressa Elisabetta Spinelli, ex responsabile del centro interdipartimentale DCA della Roma 3.
“A volte quando chiediamo alle pazienti quand’è che hai iniziato a comportarti così. Loro dicono un momento preciso, un commento, un’immagine o un’esperienza, però dietro a questo c’è già un vissuto che è iniziato più o meno precocemente.” Pediatra
In mancanza di una rete territoriale, il paziente dimesso da una struttura residenziale rischia di ricadere con maggiore facilità, in mancanza un’equipe in grado di accoglierlo nel momento più delicato. “L’illusione di molti è che il ricovero sia la soluzione e che in pochi mesi si riesca ad uscire da una terribile e pervicace dipendenza”, conclude la dottoressa Spinelli. Ma come dice Francesca, una ragazza di 22 anni, malata dai 12: “Dalla droga si può stare alla larga, ma del cibo non si può fare a meno, ce l’hai sempre davanti.” Per questo la stragrande maggioranza delle ragazze che soffrono di anoressia spesso virano, presto o tardi, alla bulimia, una forma altrettanto devastante, in cui il rischio dei danni biologici, come la rottura dell’esofago, le gravi alterazioni dei denti e disturbi della fertilità, sono più subdoli e meno visibili.
Un’altra enorme debolezza che emerge dall’analisi dei servizi offerti è che solo quattro strutture residenziali accolgono pazienti minori di 14 anni su tutto il territorio italiano.
“Mio figlio è sempre stato molto affamato, un bambino molto goloso. È nato molto grosso, era il più grande del nido. Durante l’allattamento sentivo che il latte non bastava mai.”
Mamma di Antonio, un bambino che ha sofferto di Binge-Eating Disorder
Questo punto rappresenta una criticità importante se pensiamo che negli ultimi anni l’età di esordio dei disturbi legati al comportamento alimentare si è abbassata notevolmente, ponendosi mediamente attorno ai 12-13 anni, con esordi anche in bambini di 8-9 anni.
“Questo è un gravissimo problema”, torna a spiegare la dottoressa Dalla Ragione. “Gli ospedali pediatrici italiani, tra quali il Bambin Gesù di Roma, il Meyer di Firenze e l’Istituto Gaslini di Genova, hanno pochissimi posti letto dedicati a queste patologie e possono fare solo la parte del ricovero salvo-vita”.
“Serve un percorso dedicato ai minori. Il che significa più personale, più spazi, più attività”. Inoltre sotto i 14 anni, il trattamento è molto più specializzato: “Sono pazienti più complicati di quelli adulti. A 11 anni c’è molta meno consapevolezza da parte del bambino. Non mangia, ma non ti dice il perché, ed è molto più difficile entrare in contatto”.
“Non volevo che mio figlio andasse in una struttura ospedaliera,” racconta Alessandra, mamma di un ragazzo che a 14 anni si è ammalato di anoressia. I maschi rappresentano ormai il 10% dei casi. Il ché disdice radicalmente il preconcetto che l’anoressia sia un disturbo esclusivamente femminile. Preconcetti e stigma che aggravano ancora di più le condizioni di questi piccoli pazienti e rendono più difficile trovare le risposte giuste.
Alessandra, infatti, è entrata in un tunnel senza uscita: “Abbiamo provato a chiamare il numero verde presente sul sito del Ministero e siamo stati messi in lista d’attesa per mesi. Ma ad un certo punto la situazione è degenerata. Ci hanno mandato all’ospedale Bambino Gesù di Roma per ricovero d’urgenza. Qui si è ritrovato in una stanza piccolissima, dove dormivano in cinque con le patologie più diverse, tra cui un bambino di tre mesi in fin di vita. Non potevano uscire mai dalla stanza, né venivano organizzate attività di alcun tipo, eccetto per le due ore a settimana in cui dei volontari si incaricavano di portarli fuori.”
“Era pesante, il tempo non passava mai. Dal punto di vista fisico è stato aiutato, ma la sua era una malattia mentale e si è ritrovato all’interno di un ospedale: un contesto che salva la vita, ma dove non si lavora sulla mente.”
“Non c’è consapevolezza e attenzione al problema. I medici non mi dicevano cosa avesse. Pensavo avesse il diabete, poi il cancro. Dovrebbero mandarti subito dallo psichiatra specialista. Così fai del male a questi ragazzi e ne va della loro vita. Ma si può guarire, con la cura giusta.”
Il ragazzo è stato successivamente seguito in ambulatorio e sta bene ormai da più di un anno. “La cura ambulatoriale dovrebbe poter essere maggiormente rappresentata,” dice il dottor Armando Cotugno, psichiatra, Direttore dell’Unità operativa sui Disturbi Alimentari ASL Roma 1 presso il Santa Maria della Pietà. “Il 70% dei pazienti, anche in condizioni gravi, può essere curato in ambulatorio, dove l’organizzazione dovrebbe seguire le linee guida nazionali e internazionali.” Ma, nonostante siano il cuore pulsante dei trattamenti pubblici, le cure che mancano sono anche quelle ambulatoriali.